Quando ha lanciato Doppler Labs, un’impresa la cui missione era costruire un “computer per le orecchie”, Noah Kraft era un ragazzo carismatico poco più che ventenne. La sua era un’azienda commerciale con una finalità sociale: migliorare la vita di chi è debole di udito. La società ha raccolto finanziamenti in venture capital per 50 milioni di dollari per il suo prodotto fiore all’occhiello HearOne, eleganti auricolari che sembravano una versione potenziata degli AirPods di Apple. Kraft e altri Millennial che hanno fondato aziende di alto profilo (come Mark Zuckerberg con Facebook, Evan Spiegel con Snapchat e Alexis Ohanian con Reddit) sembrano testimoniare nel migliore dei modi le ambizioni della loro generazione e la loro propensione a fondare startup. In verità, invece, sono modelli del tutto atipici. I Millennial – così il Pew Research Center definisce la generazione nata tra il 1981 e il 1996 – in realtà non hanno un grande spirito imprenditoriale.
I Millennial sono diventati adulti negli anni in cui in televisione facevano grandi ascolti alcune trasmissioni come The Apprentice e Dragons Den (in Italia Shark Tank), nelle quali i contendenti si sfidavano per il successo o per ottenere finanziamenti. Malgrado ciò, tra loro riesce ad aprire aziende un numero minore rispetto ai loro predecessori che hanno raggiunto l’età adulta durante gli anni Settanta con le loro turbolenze economiche o negli anni Ottanta e Novanta che videro una ripresa del capitalismo. Uno studio su dati del 2014 stilato dalla US Small Business Administration ha appurato che meno del 4 per cento dei trentenni ha dichiarato di appartenere alla categoria dei lavoratori autonomi a tempo pieno – un altro modo per dire imprenditori – rispetto al 5,4 per cento della generazione precedente, la cosiddetta Generazione X, e al 6,7 per cento di quella prima ancora dei Baby Boomers (comprendente i nati tra il 1944 e il 1962) alla stessa età.
In parte, il netto calo nel numero delle startup gestite da fondatori più giovani potrebbe essere imputato a un’avversione al rischio. Se da un lato con l’avvento della recessione del 2008 il numero di posti tradizionali disponibili per i laureati è andato diminuendo di continuo e nelle aspettative generali ciò avrebbe dovuto incentivare la creazione di opportunità di lavoro alternative al di fuori della triarchia rappresentata da banche, società di consulenza e studi legali, dall’altro le statistiche dell’US Census Bureau rivelano che il tasso di creazione delle startup di fatto è calato drasticamente e, anzi, deve ancora riprendersi parecchio per tornare ai livelli di prima della crisi.
Ana Bakshi, che dirige il nuovo Oxford Foundry project, un fondamentale programma dell’Università di Oxford finanziato dal fondatore di LinkedIn Reid Hoffman, dice che in cima alla lista delle richieste di aiuto provenienti dagli aspiranti imprenditori c’è «come superare la paura del fallimento». «I Millennial soffrono davvero di mancanza di fiducia in loro stessi. Di conseguenza per loro non è facile lanciare e far crescere un’azienda», ha detto. Quando i Millennial ci riescono, però, ne lanciano più di una. Da uno studio del 2015 di BNP Paribas, scopriamo che gli imprenditori di età compresa tra 20 e 35 anni in media avevano fondato il doppio delle aziende delle loro controparti di età superiore ai 50 anni.
In ogni caso, avere intestata a proprio nome una sfilza di startup prima ancora di aver compiuto i 35 anni non significa necessariamente che quelle aziende sopravvivranno. Rory Bate-Williams, trentenne, ha lanciato tre aziende. Di queste, la prima (una società che noleggia tende in stile medioevale, fondata quando era ancora adolescente) è tuttora in attività, ma è affidata alla direzione di un suo familiare. La seconda, la piattaforma di messaggistica Boink, non è più operativa. La terza, un’attività di street food denominata Voodoo Chicken che vende pollo grigliato in stile Cajun, sta muovendo ora i suoi primi passi. Anche il primo successo di Kraft si è dissolto come una bolla di sapone: dopo quattro anni, Doppler Labs ha cessato l’attività. Le aspettative di HereOne sono andate tragicamente deluse e non hanno fatto breccia, mentre Kraft, che non ha risposto alla nostra richiesta di un’intervista per questo articolo, non è più riuscito a mettere insieme i finanziamenti necessari ad andare avanti.
L’alterno esito in termini di successo di Kraft e di Bate-Williams si riflette nei dati ufficiali. La generazione più giovane di fondatori ha molte meno probabilità di riscuotere successo nelle sue iniziative rispetto ai fondatori delle generazioni più anziane: secondo un altro studio dell’US Census Bureau, infatti, l’età più proficua per un fondatore di startup è intorno ai 45 anni, mentre i giovani tra i 20 e i 30 anni hanno meno probabilità di creare una società destinata a espandersi sensibilmente. Nel Regno Unito i dati ufficiali mostrano che ogni anno il numero delle società che cessano la loro attività è uguale a quello delle società che iniziano a essere operative.
Molti Millennial dicono che amerebbero essere lavoratori autonomi, tenuti a rispondere soltanto a loro stessi, ma proprio pochi compiono il grande passo e si lanciano davvero nell’impresa. Anche se oggi sono disponibili molti più aiuti rispetto a prima, sotto forma di incubatori e accettazione culturale e riconoscimento degli imprenditori, «sussiste ancora un divario enorme tra le ambizioni nutrite dalla generazione dei Millennial e quelle di chi si butta davvero per aprire un’azienda», dice Robert Osborne del Centre for Entrepreneurs, un think-tank londinese. «Sommato alla mancanza di esperienza a livello internazionale, ci sarà sempre un senso di disagio e di insicurezza» dice. Oltre a ciò, le generazioni precedenti non erano oberate dalla medesima zavorra dei debiti contratti per permettersi gli studi, fa notare.
La generazione dei Millennial, in ogni caso, non necessariamente è omogenea nella sua riluttanza a lanciarsi nell’imprenditoria. Risulta chiaramente che i membri più giovani di questa generazione (in pratica, coloro che si sono laureati molto dopo la fine della crisi finanziaria) sono maggiormente disposti dei loro compagni più grandi a rischiare di fallire. Il servizio carriere dell’Università di Oxford ha informazioni risalenti all'ottobre 2016 dalle quali risulta che quasi il 15 per cento degli studenti in arrivo segnalava un interesse particolare nel diventare imprenditori. Un anno dopo questa percentuale è salita al 19 per cento. Osborne conclude che «c’è stato un aumento considerevole, come considerevole è la differenza tra le fasce di età».
Di questa evoluzione radicale di atteggiamento si è accorta anche Emma-Jane Packe, managing director del Supper Club, un network per aziende in espansione che hanno già raggiunto determinati obiettivi dal punto di vista degli introiti. «In passato, alcune persone riuscivano a fondare le loro imprese prima di compiere i 30 anni, ma riuscivano a espanderle gradualmente soltanto quando erano prossimi ai 40. Negli ultimi 18 mesi, invece, abbiamo assistito alla nascita di varie aziende da parte di moltissimi Millennial di età compresa tra i 20 e i 25 anni. Ciò può dipendere dal fatto che gli imprenditori più giovani espandono poco alla volta le loro aziende ma con più rapidità», dice Packe.
Potrebbe anche darsi, però, che ciò avvenga perché sono maggiormente disposti ad accettare l’idea di fallire. «I più anziani di questo gruppo potrebbero essere meno disposti ad accettare di fare un tentativo. Mentre i più giovani, probabilmente, sono più disposti a provarci, vedere come vanno le cose e fallire».
Copyright The Financial Times Limited 2018
(Traduzione di Anna Bissanti)
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